Il dipinto n. 371 della Galleria Borghese
rimane ancora oggi un’enigma: l’attribuzione a Raffaello fu a lungo contestata,
non è stato possibile identificare la dama ritratta,anche perché “travestita”
per oltre due secoli con gli attribuiti di santa Caterina d’Alessandria, e incerta
è perfino la sua storia attraverso gli inventari, dove l’opera è citata in
maniera discontinua, spesso con imprecisioni sulle dimensioni e con possibilità
di equivoci sull'identificazione iconografica. La giovane dama bionda e con gli
occhi azzurri è raffigurata frontalmente contro un parapetto e fra le due
colonne di una loggia aperta su un lontano paesaggio, mentre tiene in grembo
un liocorno di piccole dimensioni.
La più antica citazione del dipinto
sembrerebbe essere quella nell'inventario della collezione Albobrandini del
1682, che entrò in quell'anno a far parte della raccolta Borghese. “… n. 78 Un
quadro in tavola con una donna a sedere con Alicorno in braccio alto palmi uno
e mezzo in circa con cornice nera di mano incerta, alquanto scrostata come
l’Inventario sudetto a fogli 192 n. 40”. L’inventario non fornisce alcuna
notizia sull'autore del dipinto, genericamente definito “di mano incerta”. Le
dimensioni sono precisate solo per l’altezza (“palmi uno e mezzo”, equivalenti
all'incirca a cm. 35), che risulterebbe inferiore di una trentina di centimetri
rispetto a quella del quadro n. 371 (cm. 67,7); le misure dell’inventario del
1682 tuttavia risultano, in genere, molto approssimative. La “cornice nera” non
è quella attuale, in legno intagliato e dorato.
I dati più rilevanti dell’inventario
riguardano l’iconografia, descritta con molta precisione, ed il precario stato
di conservazione (“alquanto scrostata”). In base a ciò è stato ipotizzato che
la trasformazione del ritratto in Santa
Caterina d’Alessandria fosse avvenuta dopo il 1682, per rimediare alle
cattive condizioni del quadro.
Negli inventari settecenteschi il dipinto non
è identificabile in modo sicuro. La “S.
Caterina di Raffaele d’Urbino”, sempre ricordata dal 1700 in poi, si
riferisce al quadro del Sanzio emigrato in Inghilterra nel 1801 ed attualmente
conservato nella National Gallery di Londra, opera tra l’altro di attribuzione
indiscussa.
Nell'Ottocento ritroviamo il dipinto in un
inventario databile dopo il 1819, citato come “Pietro Perugino. N. 8/S.
Caterina della Rota”. Anche in questo caso, però, l’identificazione va
considerata con molta cautela perché le dimensioni inventariali sembrerebbero
leggermente maggiori di quelle del dipinto.
Più sicure, invece, le menzioni degli
inventari dal 1833 in poi, dove la tavola è così registrata: “… Prima stanza…
n. 24. Un retratto rappresentante Santa Caterina della Rota della scuola di
Perugino, lungo palmi 2 e mezzo; alto palmi 3”. Nessuna variazione è
riscontrabile né nell'attribuzione (scuola del Perugino) né nella collocazione
dell’opera (Prima Camera) fino al 1854, quando viene tentata per la prima
volta, in una descrizione anonima del palazzo, l’identificazione della figura
femminile: “Prima Stanza, terza parete n. 44 Ritratto di Maddalena Doni
Fiorentina in stile del Perugino”. Citazione che resterà identica in tutte le successive
descrizioni della galleria.
Va a Giovanni Morelli il merito di essere
stato il primo ad iniziare la moderna vicenda critica del dipinto, vicenda le
cui tappe più importanti sono tutte concentrate negli anni dal 1874 (Morelli)
al 1927 (Longhi).
Il Morelli accettò senza riserve l’ormai
consolidata identificazione inventariale della dama ritratta con Maddalena
Doni. La doppia natura del dipinto – un ritratto con gli attributi della santa
– diventò un fatto universalmente riconosciuto negli itinerari, negli inventari
ed ora anche nel campo degli studi filologici. Il Morelli procede nella
descrizione rivelando via via tutti gli indizi che dovrebbero condurre alla
risoluzione del caso: “…abbiamo un Ritratto di donna: la faccia non ci è nuova…
questa giovane donna dalle guance pienotte e dallo sguardo un po’ vuoto, non è
altro che Maddalena Strozzi, compagna del fiorentino Angelo Doni… un’immagine
di Santa, destinata probabilmente a qualche parente della Maddalena Strozzi
stessa, che nel quadro aveva preso il nome di Santa Caterina…”
Le novità proposte dal Morelli riguardano,
come è ovvio, l’attribuzione. Non si tratta, afferma il Morelli, di un’opera
della scuola del Perugino, perché “…Né la modellatura, né l’accordo dei colori,
né molto meno il fondo a paesaggio (la) ricordano”. Non solo: “L’occhio o la
pieghettatura non vi sono rotondeggianti come nei discepoli del Perugino o di
Pinturicchio; ma invece quadrati come nel Granacci, o nel Ridolfo del
Ghirlandaio. I capelli son dipinti con poco gusto. Il paesaggio freddo ricorda
più quadri del Granacci che quelli del Ghirlandaio”.
Altro indiscutibile merito dello studioso fu
quello di aver collegato il ritratto ad un disegno di Raffaello conservato al
Louvre, probabile modello, per l’esecuzione del dipinto da parte di “un valente
artista affine al Granacci, se non Francesco Granacci stesso”.
Nel 1893 Adolfo Venturi riprende il
collegamento fra il disegno di Raffaello del Louvre ed il ritratto Borghese già
suggerito dal Morelli. Ascrive però il dipinto più genericamente a “Scuola
fiorentina”, proponendo con cautela “… potrebbe essere forse un’opera giovanile
di Andrea del Sarto, poiché nelle mani, ove il pittore non poté copiare il
disegno di Raffaello, si veggono tinte simili a quelle di Andrea…” Poco prima
lo studioso aveva anche osservato “… le mani sono inferiori al resto della
figura”.
Si cominciano già a delineare gli elementi che
condurranno da una parte all'attribuzione dell’opera a Raffaello (il rapporto
con la Maddalena Doni di Pitti, il
disegno del Louvre), dall'altra all'individuazione di una parte originale e di
una ridipinta.
La seconda importante tappa della storia
critica dell’opera è segnata dagli interventi di Giulio Cantalamessa, direttore
della Galleria Borghese dal 1906 al 1924. Nelle note manoscritte, redatte nel
1911-1912, il Cantalamessa riporta tutte le precedenti attribuzioni. Non ne fa
di personali, ma osserva con molta acutezza: “… la disposizione stessa della
figura e lo stile indicano nell'artista il proposito di seguire il Raffaello”.
Ma soprattutto: “… senza essere straordinaria, l’opera è bella e fine,
specialmente nella modellatura del collo e delle clavicole… Brutta la mano
destra e scorretta e di tinta pesante, ma la colpa è di un profano ritoccatore…”
Nel 1916 il Cantalamessa mette a punto le sue
conclusioni, che modificano in modo sostanziale la tradizione storiografica
ottocentesca sul dipinto ed aprono la strada alla “rivelazione” del Longhi del
1927. Il Cantalamessa, infatti, pur concordando nel collegamento fra il disegno
di Raffaello del Louvre ed il ritratto n. 371 già individuato da Morelli e
Venturi, ne contesta l’identità del personaggio ritratto con Maddalena Doni.
Non solo, attraverso un’osservazione ancor più meticolosa dell’opera, arriva ad
individuare molto chiaramente la presenza di due artisti distinti: “… Perché il
manto tradizionale… ribelle ad accompagnarsi bene con quel corsetto… e le mani
e la ruota dentata accusano un pennello molto meno abile di quello che aveva
dipinto il resto, ed un sentimento più rozzo…” Le premesse sono già ben
definite, anche se l’attribuzione rimane quella, estremamente prudente, a
“Scuola fiorentina”.
Si arriva così al 1927, quando Roberto Longhi per la
prima volta individuò la qualità e la mano di Raffaello nel ritratto Borghese. Innanzitutto
riassume i precedenti del “caso”, dal Morelli al Cantalamessa, di cui lo
studioso riconosce pienamente l’acume critico. Si passa poi all'osservazione
del panneggio del manto “… un clivo così immacolato come quello delle spalle
nude della gentildonna non era certamente stato destinato per immantellarsi
alla peggio in questo manto di zinco verniciato”. Poi, attraverso confronti di
particolari, si tenta l’attribuzione delle ridipinture “… chi a furia di
copiare gli schemi ve ne aggiunge instancabilmente de’ nuovi è, a mio parere,
uno solo in quei giorni: il Sogliani”.
Distinta così la parte aggiunta da quella
originale, l’attenzione si sposta verso quest’ultima. Longhi traccia
addirittura un disegno su come il ritratto doveva essere in origine. E
finalmente svela il mistero che sembrava nascosto dalle aggiunte posteriori del
manto, dalla ruota, delle mani: “… la forma originaria della giovane donna
della Galleria Borghese si leva per grado di eccellenza proprio come fanno la Doni e la Ignota degli Uffizi; ed appare terza accanto ad esse: come terza
libera interpretazione offertaci da Raffaello del famosissimo esemplare di
Leonardo… dipinto, crediamo, verso la metà del primo decennio del Cinquecento”.
Fu proprio l’intervento di Longhi ad aprire la
strada alla proposta di restauro della tavola,e nel 1934 il Ministero
dell’Educazione Nazionale nominò una commissione apposita. La storia del
restauro è minutamente descritta nel “Bolletino d’Arte” del 1936: dalle
radiografie eseguite nel 1933, che rivelarono “… un cagnolino sulle ginocchia
della donna…” al primo saggio di pulitura in una piccola zona del manto a
sinistra della scollatura, che fece scoprire parte del paesaggio dello sfondo,
fino all'affidamento del restauro nel 1934. Attorno al “ripristino” della
tavola si fissò immediatamente l’attenzione degli studiosi italiani e
stranieri. Il problema era soprattutto come e in che misura procedere alla
rimozione delle parti ridipinte. Alcuni studiosi si dichiaravano favorevoli alla
rimozione della ruota e della palma del martirio, ma contrari a quella del
mantello, operazione che consideravano troppo rischiosa.
Il restauro venne affidato ad Augusto Cecconi
Principi, che nel 1936 eseguì la distruzione del supporto ligneo originale, il
fissaggio del colore, il trasporto su tela, l’applicazione su una nuova tavola
di compensato ed infine la rimozione a bisturi delle parti ridipinte, manto
compreso.
La stampa si scatenò immediatamente
sull’inedito raffaellesco: la Santa
Caterina d’Alessandria era diventata un Ritratto
di giovane donna con unicorno. Il risultato del restauro dava così
completamente ragione all'occhio di Longhi e coincideva quasi esattamente con
il suo disegno ricostruttivo, se si esclude l’imprevedibile particolare del
liocorno-cane. Si formarono subito il fronte pro-Raffaello (Longhi) e quello
che manteneva l’ormai consolidata attribuzione morelliana al giro
Granacci-Ridolfo del Ghirlandaio.
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| Prima del restauro del 1935 |
L’ultimo intervento di restauro sulla Dama col liocorno risale al 1959-1960, a
cura dell’Istituto Centrale del Restauro, allora diretto da Cesare Brandi. Il
trasporto su tela aveva infatti danneggiato l’opera, la cui superficie
pittorica si presentava molto rovinata, soprattutto nella zona del cielo e
delle giunture fra le maniche e la scollatura, dove prima c’era il manto. La
nuova serie di radiografie eseguite in quell'occasione, inoltre, confermò la
presenza di un cane sotto il liocorno e rivelò nello strato sottostante un
volto femminile più maturo rispetto a quello attualmente leggibile. Questa
volta, però, la decisione fu di non procedere alla pulitura in profondità né
sul liocorno né sul viso della dama. L’unico recupero fu quello del nastro
sulla manica sinistra dell’abito.
Quanto al significato dell’opera nel percorso
di Raffaello è evidente il richiamo alla Monna
Lisa di Leonardo (per la posa e le colonne del loggiato dove è seduta),
richiamo già indicato dal Longhi, che collega il ritratto Borghese anche ad un
altro esemplare leonardesco, la Dama con
l’ermellino del Museo di Cracovia. Il legame con Leonardo è ancor più
stretto nel disegno del Louvre, ormai accettato in maniera unanime come preparatorio
per il dipinto Borghese: infatti, sovrapponendo l'immagine del disegno a quella
del dipinto attuale è sorprendente osservare, fatti i debiti rapporti
proporzionali, quanto coincidano i lineamenti del volto della donna con quelli
disegnati; come il profilo delle spalle si mantenga pressoché uguale e le
dimensioni e la forma del corpetto trovino anch'essi un preciso riscontro nella
pittura. Nel dipinto il parapetto è
collocato più in alto rispetto quello
della Monna Lisa, in modo da dividere la superficie pittorica in due rettangoli
uguali; inoltre l’importanza del paesaggio è stata ridotta e inquadrata dalla
preponderanza dell’elemento architettonico. È stata ipotizzata in modo
interessante la probabile esistenza a Firenze, nel primo quinquennio del
Cinquecento, di un prototipo di ritratto a mezzo busto, forse nordico, comune a
Leonardo, Raffaello, Ridolfo del Ghirlandaio.
L’iconografia del ritratto è un altro enigma
non risolto: il personaggio è ancora senza nome. Il liocorno che la donna porta
in grembo, simbolo di castità, è legato alla tipologia del ritratto nuziale.
Del liocorno ci parla la letteratura cortese e cavalleresca: animale fantastico
descritto nei Bestiari medievali come “… la bestia più crudele e difficile da
catturare, nessuna armatura può resistere al corno che ha sul capo… esclusa
solamente una giovane vergine… perché quando scopre una ragazza dal suo
profumo, si inginocchia davanti a lei con dolce umiltà… e cade addormentato fra
le sue braccia…”
Il riconoscimento inequivocabile di Maddalena
Doni, nel ritratto che forma il dittico, assieme a quello dello sposo Agnolo,
conservato a Palazzo Pitti, fece tramontare definitivamente l’ipotesi
morelliana di identificazione del quadro Borghese. Vista la singolare bellezza
del dipinto della Dama e l’interpretazione
come ritratto nuziale su cui tutti gli studiosi concordano, è stata ipotizzata
per il dipinto una committenza storicamente importante legata a una precisa
occasione.
Le fisionomie di Maddalena Doni e della dama
sconosciuta sono state confrontate, rilevando più di una somiglianza, al di là
di una diversità che consiste soprattutto in elementi di immediata lettura,
come il colore di occhi e capelli e la concretezza dei tratti del volto, che nel
ritratto Pitti descrivono con grande realismo un’esponente della ricca
borghesia fiorentina di inizio Cinquecento, contrapposta all'evanescenza
sublimata della Dama con liocorno.
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| Raffaello, Ritratto di Maddalena Doni, 1506, Firenze, Galleria Palatina |
È impossibile negare la vicinanza della forma
della bocca, del mento, della parte inferiore delle guance che hanno lo stesso
innesto sul collo; oltre che del naso, il quale appare più delicato nella Dama con liocorno solo per il
trasfigurante chiarore e l’idealizzazione formale che pervadono la figura, ma
che è assolutamente identico nel dorso largo, nell'impostazione sulla fronte
che allontana gli occhi ugualmente tondi e dalla fissità un po’ “vuota”, come
notava Morelli. Anche la forma della fronte coincide perfettamente nei due
ritratti.
Che la somiglianza così marcata di dati
fisiognomici non derivi da astratte stilizzazioni ideali è provato dal fatto
che, prendendo in esame altri ritratti di donna realizzati dall'artista,
cronologicamente accostabili a questi, come la Gravida o la Muta, si
osserva che i caratteri fisici sono completamente differenti. Se non fosse che
la Dama con liocorno ci appare così
angelicamente bionda, sembrerebbe di ritrovarla, qualche anno dopo, più matura
e opulenta nel ritratto palatino.
Esiste un altro elemento che unisce i due
ritratti, ed è l’analogia davvero sorprendente dell’ornamento, il pendente che
indossano le due dame e che non ha altro confronto, per ostentazione e
dimensioni, nella ritrattistica di Raffaello. Nel ritratto della Galleria
Borghese esso costituisce anzi l’elemento più concreto e terrestre di questa
figura angelicata che in un paesaggio evanescente sorregge un animale favoloso.
Il doppio ritratto dei coniugi Doni a Palazzo Pitti
è concordemente considerato un ritratto di nozze, vale a dire celebrativo degli
sposi; ma altrettanto concordemente l’esecuzione, per precisi dati stilistici,
viene spostata a un’epoca leggermente successiva alla data del matrimonio di
Agnolo e Maddalena, avvenuto il 31 gennaio 1504. La datazione è genericamente
collocata fra il 1505 e il 1506, o fra il 1506 e il 1507, anche se è stato
addirittura proposto il 1508. In effetti la Maddalena Doni nel ritratto
fiorentino appare ben più matura dei quindici anni che avrebbe avuto alla data
del matrimonio, essendo nata nel 1489. Età che si adatta invece perfettamente
alla giovinetta effigiata con il liocorno.
Secondo la consuetudine fiorentina dell’epoca,
le opere d’arte e, a maggior ragione i ritratti delle spose, venivano
commissionati soprattutto in occasione del matrimonio, e una famiglia importate
come era divenuta quella di Agnolo Doni non aveva motivo di sottrarsi alla
tradizione. Tanto più che Agnolo era particolarmente attivo nella committenza
artistica, aveva fatto eseguire una preziosissima decorazione della propria
camera nuziale a Morto da Feltre, divenuta un modello per Firenze, oltre ad
avere commissionato a Michelangelo il famoso Tondo. Quello che si potrebbe ipotizzare è che il ritratto di
Maddalena Strozzi fatto eseguire in occasione del matrimonio del 1504 sia
quello conservato alla Galleria Borghese, e che solo in un secondo momento,
probabilmente in occasione della nascita a lungo attesa della primogenita,
avvenuta nel settembre del 1507, o addirittura di quella del figlio Francesco,
avvenuta nel novembre del 1508, sia stato fatto eseguire il dittico conservato
a Pitti. Le forme della Maddalena Doni si addicono infatti a quelle di una
giovane sui vent'anni, appesantita ma anche inorgoglita dalla maternità.
A favore dell’identificazione della Dama con liocorno con la figura storica
di Maddalena Strozzi giocherebbe un’ulteriore coincidenza: la sua famiglia,
discendente da Marcello Strozzi, del ramo collaterale della celebre dinastia
fiorentina, risiedeva nel Gonfalone dell’Unicorno del quartiere di Santa Maria
Novella. La scelta dell’unicorno come simbolo di verginità era perfettamente
legittimo come attributo di una promessa sposa, ma non così consueto, agli
inizi del Cinquecento, come lo era stato in epoca tardo-gotica in un ambito di
cultura cortese. Tant'è vero che l’attributo è divenuto eponimo del quadro,
in modo analogo a quanto è accaduto all'altrettanto stravagante ermellino della
Cecilia Gallerani di Leonardo. Come attributo della sposa era più consueto
scegliere il cane, simbolo di fedeltà; e in effetti Raffaello aveva dipinto
proprio un cane, cui fu sovrapposta in un secondo momento la figura del
liocorno, come testimoniano le radiografie. Il motivo di tale mutamento in
corso d’opera non è mai stato spiegato e si potrebbe ipotizzare che fosse stato
frutto di una notazione emersa in un secondo momento per meglio connotare la
precisa appartenenza della sposa alla famiglia di quella contrada, conferendole
così nome e cognome.
La
fanciulla ha inoltre i capelli sciolti sulle spalle come si addiceva alla sua
condizione di giovinetta, mentre la donna del ritratto Doni ha i capelli
raccolti in un “coazzone” come richiedeva il suo stato di maritata: quindi il
dipinto fu concepito per una donna già moglie e non per una fanciulla promessa.
Fin dal Medioevo, i gioielli con cui si
adornavano gli uomini e le donne, oltre che per la loro bellezza, dovevano
essere scelti in virtù dei poteri delle pietre stesse, e numerosi trattati
erano dedicati proprio a questo argomento. Non a caso, spesso le gemme
diventano quasi “emblemi” dei personaggi che le portano; le perle sono infatti
elette a simbolo della Vergine e delle spose, così come lo smeraldo, il corallo
che caccia i demoni e fuga le tempeste, il rubino che allude alla fiamma della
carità, l’opale che aumenta la vista, il diamante che dà forza e coraggio, ecc.
In questi testi, oltre alle spiegazioni dei poteri delle pietre, spesso erano
fornite indicazioni anche sul loro colore, poiché un’importanza fondamentale
era riservata alle tonalità della gemma, che spesso, per certe sfumature di
colore, mutavano la loro qualità e potenza. Alle pietre preziose viene dunque
riconosciuto, secondo le antiche tradizioni, un potere taumaturgico ed
amuletico, costituendo un prezioso patrimonio di superstizioni alla portata sia
del popolo che delle persone più colte. Vicino ai talismani è infatti da
considerarsi la perla, ornamento prezioso, indossata a Firenze sia da uomini
che da donne; essa è, infatti, tra gli oggetti preziosi nominati con più
frequenza nei lasciti testamentari. Spesso la perla orna da sola abiti e
capelli delle donne fiorentine, già simbolo di purezza, attributo di Venere
stessa, e poi della Vergine. La connessione perla-purezza deriva
dall'accostamento biblico del Cantico dei Cantici, dove la sposa è comparata
alla perla; già sant'Agostino affermava che la perla è simbolo della castità
dell’uomo-Dio e della bellezza, senza rivali, dell’anima. Singolare è inoltre
la testimonianza sull'uso terapeutico delle perle, usate nei casi disperati
sciolte nell'aceto: è per questo che a Lorenzo il Magnifico, nel 1492, in punto
di morte, viene somministrata dal medico una pozione di perle tritate, così come
consigliavano i vari lapidari. Per quanto riguarda lo smeraldo e il rubino,
sappiamo dai documenti quattrocenteschi pervenutici che erano le pietre che con
maggior frequenza venivano regalate alle spose in occasione delle nozze. Questo
dono, come risulta dalle notizie riferite nei lapidari, doveva apparire di buon
auspico per la felicità e la buona riuscita del matrimonio: allo smeraldo,
infatti, oltre a particolari poteri taumaturgici ed alla proprietà di
conservare la bellezza del volto, veniva attribuita la virtù di rendere caste
le persone che se ne adornavano: secondo la leggenda, la pietra si sarebbe
spezzata quando una vergine fosse stata violata.
In quest’ottica è da considerare il
particolare del pendente che, pur corrispondendo nella scelta delle pietra alla
correttezza iconografica della connotazione della sposa. Le pietre presenti
rappresentano proprio quei riferimenti simbolici che alludono alle virtù
coniugali e al candore virginale della sposa: il rubino che conferisce forza,
lo smeraldo dai poteri taumaturgici e connessi alla castità, lo zaffiro simbolo
di purezza, la perla scaramazza, simbolo dell'amore spirituale e della
femminilità creatrice già dall'età antica, e per questo donata alle spose. Il
gioiello ha dunque una sua forte personalità e concretezza visiva, è un oggetto
importante, che si configura, più che come attributo simbolico, come
indicazione di un’appartenenza concreta, un’identità precisa dell’effigiata.
Quale si avrebbe, per esempio, se fossero entrambi doni di Agnolo, di cui erano
note la passione per i gioielli e la collezione di gemme. Le due perle
scaramazze a forma di pera erano poi, anche all’epoca, rarissime e di enorme
valore, e non potevano costituire dei generici attributi. Se si considera che
nessuno dei ritratti femminili di Raffaello ha un gioiello definibile, così
come lo sono questi pendenti, di “esagerate proporzioni”; che, pur nella
diversità della forma dei castoni essi si assomigliano “concettualmente”,
attengono cioè a una stessa categoria, per il gusto estremamente ricercato ma
anche esibito, nonostante le regole imposte a Firenze dalle leggi suntuarie;
che sul castone del pendente della Maddalena
Doni, come legatura in oro, compare il liocorno; tutto ciò fa concludere
che non si tratta che di indizi, che nessuno degli elementi qui citati può in
alcun modo costituire di per sé una prova che si tratti in entrambi i casi di
Maddalena Strozzi, ma considerandoli tutti insieme possono costituire quanto
meno una possibilità. Seguendo le implicazioni di tale possibilità ipotetica,
la Dama con liocorno della Galleria
Borghese dovrebbe datarsi al 1504, al massimo agli inizi del 1505 considerando
che esiste sempre un lasso di tempo non facilmente quantificabile tra la
commissione di un dipinto e la sua consegna, la quale verrebbe dunque a cadere
nel periodo in cui Raffaello è soprattutto documentabile alla corte di Urbino.
La Dama
con liocorno è dipinta in maniera estremamente luminosa. La materia sottile
e trasparente di cui è costituita contrasta fortemente con quella dei ritratti
del 1506-1507, cui si vorrebbe accostare, dove invece il colore dai toni
cromatici forti e contrapposti è ben iscritto in ampie superfici e non è
dissolto dalla luminosità.
Le uniche opere che le si possono accostare
sono i piccoli quadri che Raffaello eseguì per la corte di Urbino, il Sogno del cavaliere e ancor più San Giorgio e il drago del Louvre,
dove la testa del cavallo è dipinta esattamente come l’unicorno ed è costituita
della stessa sostanza materica, della stessa tavolozza pallida, da un’analoga
preparazione della tavola molto liscia e accurata, dalla stessa sottile
superficie pittorica. L’identità di scelta coloristica e di stesura pittorica si
riscontra anche nel confronto tra i paesaggi su cui si impostano il drago che
lotta con san Giorgio e la dama con l’unicorno. Gli elementi che accomunano
questi tre dipinti erano ben intonati al clima fatto di raffinatezze cortesi,
di preziosità pittorica, di ricercatezza nella scelta dei soggetti, che
dominava la corte urbinate a partire soprattutto dal 1503 e negli anni in cui
Raffaello la frequentò più a lungo. Non a caso nascono questi soggetti, unici
nella vicenda pittorica di Raffaello: il liocorno, il drago e il san Giorgio,
l’allegoria profana, l’unica da lui dipinta, del cavaliere dormiente. Tutte
queste circostanze rinviano alle figure ideali e favolose, ai riti e ai costumi
di cui ci parla la letteratura cortese cavalleresca, con i suoi animali
favolosi, con i bestiari medievali, con la miniatura tardo-gotica.
La Dama
e le piccole tavolette eseguite per i Montefeltro si avvertono come una
parentesi di sofisticata stilizzazione nell'opera di Raffaello, mai più
ripetute, ben diverse dai ritratti borghesi fiorentini. D’altra parte un
ambiente così intriso di umori letterari avrebbe potuto indurre a celebrare la
ritratta con le forme angelicate e immersa nell'atmosfera favolosa della Dama con liocorno, rendendola antitetica
rispetto al realismo ritrattistico della Maddalena
Doni. Questo non rappresenterebbe l’unico caso, nell'opera di Raffaello, di
trasformazione idealizzata dell’effigiato. Già il ritratto di Giovane con la mela degli Uffizi,
identificato con Francesco Maria della Rovere erede del duca di Urbino,
eseguito anch'esso nella piena atmosfera della corte urbinate intorno al 1504,
mostra sembianze del tutto diverse da quelle dello stesso Francesco Maria della
Rovere che compare ritratto due volte nella stanza della Segnatura, con lunghi
capelli biondi e fattezze angelicate.
Il confronto tra i disegni preparatori per il San Giorgio e per la Dama con liocorno, entrambi eseguiti a
penna, confermerebbero la vicinanza stilistica e cronologica fra le due opere. I
disegni, come i dipinti, documentano l’elaborazione di elementi tutti desunti
da Leonardo. Il disegno con il ritratto di giovane donna del Louvre, in stretta
relazione con la Dama con liocorno, è
considerato la prova più evidente dell’interesse di Raffaello per la
ritrattistica di Leonardo. La realizzazione pittorica in genere riconosciuta
nel ritratto della Galleria Borghese si differenzia nel disegno proprio per gli
elementi più caratterizzanti l’individualità del personaggio, quali i tratti
del volto, l’acconciatura che nel disegno riproduce più esattamente quella
della Gioconda, così come la posa
delle mani, che nel dipinto si devono scomporre per sorreggere l’attributo, il
liocorno.
In Raffaello l’individualità dei tratti
caratteristici trasformano lo studio di un modello, quale è il disegno, nel ritratto
di una persona concreta, come era richiesto nella Firenze mercantile e borghese
dei primi anni del Cinquecento. La traduzione in pittura avviene però sotto
l’influenza di una cultura completamente diversa, quella squisitamente
rarefatta della corte di Urbino.
L'ipotesi più certa, tenendo conto della
simbologia inserita nel quadro, è che ci si trovi di fronte ad un ritratto, del
periodo fiorentino, commissionato in occasione di un matrimonio e lasciato
incompleto da Raffaello a Firenze, forse per interruzione del contratto
matrimoniale oppure per l'improvvisa morte della dama effigiata o del futuro
consorte o, più semplicemente, per la partenza definitiva del Sanzio alla volta
di Roma.
Probabilmente, durante il XVII secolo, la
dama, con le sue spalle scoperte, i suoi gioielli e la misteriosa figura del
liocorno sul grembo, dovette affrontare il giudizio della nuova morale
religiosa che si diffondeva in Europa con la Controriforma. È in questo momento
che il dipinto subisce la sua metamorfosi: da donna che si circonda di gioie
terrene a Santa Caterina martire. Le spalle e le maniche vengono avvolte da un
ampio manto. Le mani non cingono più il liocorno ma sono impegnate a sorreggere
gli attributi tipici di questa santa: la ruota e la penna d'oca.
Tra gli altri nomi proposti per
l'identificazione della dama misteriosa, oltre a Maddalena Strozzi, troviamo
quelli delle nobildonne andate spose negli anni fra 1505 e 1507 ad alcuni dei
committenti fiorentini di Raffaello: Sandra di Matteo di Giovanni Canigiani
(sposa di Lorenzo di Bartolomeo Nasi), Ginevra Canigiani (sposa di Liandro di
Bartolomeo Nasi), Lucrezia di Girolamo Frescobaldi (sposa di Domenico
Canigiani), Costanza di Priore Pandolfini (sposa di Pietro di Rinieri Dei), ma
non coscendo la fisionomia di queste donne non è stato possibile un confronto.
Osservando l’immagine della fanciulla possiamo
notare che le dita delle mani della Dama con liocorno non sono
ornate da anelli preziosi, rappresentati invece in tutti gli altri ritratti di donne
sposate di alto lignaggio dipinte da Raffaello, a cominciare dalla Maddalena
Doni, dalla Gravida per
finire con la Muta .
E’
pur vero che nel quadro Borghese sono visibili, soltanto, il pollice e l'indice
della mano destra, ma, in genere, gli anelli erano inseriti anche attorno agli
indici, anzi, l'anello nell'indice era di gran moda nel primo '500, come appare
nella mano sinistra della Maddalena Doni e in entrambe le mani
della Muta. Anche in questo caso il riferimento simbolico, come da
tradizione, teneva conto della corrispondenza fra i significati astrologici e
le singole dita delle mani (il pollice era il dito di Venere, l'indice quello
di Giove, il medio di Saturno, l'anulare il dito solare per eccellenza, il
mignolo il dito di Mercurio).
Hanno invece dita prive di gioielli tutte le
diverse figure femminili raffaellesche derivate dalla mitologia classica e
dalla religione cristiana. Infine, in nessuno dei suoi ritratti femminili il
Sanzio ha inserito altre figure di animali, così vistosamente esplicite come nella
Dama Borghese.
Per
saperne di più:
- - Raffaello
nelle raccolte Borghese, catalogo della mostra tenuta a
Roma, Galleria Borghese, gennaio-marzo 1984.
- - Raffaello,
catalogo comlpleto dei dipinti, Firenze, 1989.
- - La
virtù delle gemme. Il loro significato simbolico e astrologico nella cultura
umanistica e nelle credenze popolari del Quattrocento. Il recupero delle gemme
antiche, in L’oreficeria
nella Firenze del Quattrocento, catalogo della mostra tenuta a Firenze,
1977.
- - Coliva Anna (a cura di), Raffaello da Firenze a Roma, catalogo
della mostra tenuta a Roma, Galleria Borghese, 2006, Milano, 2006.
- - De Vecchi Pierluigi, Raffaello: la mimesi, l’armonia e
l’invenzione, Firenze, 1995.
- - Strinati Claudio, Raffaello in Art Dossier, Firenze, 1995.





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