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domenica 13 aprile 2014

Dama con Liocorno - Raffaello

 
Raffaello, Dama con liocorno, 1505-1507, tela applicata su tavola, Roma, Galleria Borghese

Il dipinto n. 371 della Galleria Borghese rimane ancora oggi un’enigma: l’attribuzione a Raffaello fu a lungo contestata, non è stato possibile identificare la dama ritratta,anche perché “travestita” per oltre due secoli con gli attribuiti di santa Caterina d’Alessandria, e incerta è perfino la sua storia attraverso gli inventari, dove l’opera è citata in maniera discontinua, spesso con imprecisioni sulle dimensioni e con possibilità di equivoci sull'identificazione iconografica. La giovane dama bionda e con gli occhi azzurri è raffigurata frontalmente contro un parapetto e fra le due colonne di una loggia aperta su un lontano paesaggio, mentre tiene in grembo un liocorno di piccole dimensioni.

 La più antica citazione del dipinto sembrerebbe essere quella nell'inventario della collezione Albobrandini del 1682, che entrò in quell'anno a far parte della raccolta Borghese. “… n. 78 Un quadro in tavola con una donna a sedere con Alicorno in braccio alto palmi uno e mezzo in circa con cornice nera di mano incerta, alquanto scrostata come l’Inventario sudetto a fogli 192 n. 40”. L’inventario non fornisce alcuna notizia sull'autore del dipinto, genericamente definito “di mano incerta”. Le dimensioni sono precisate solo per l’altezza (“palmi uno e mezzo”, equivalenti all'incirca a cm. 35), che risulterebbe inferiore di una trentina di centimetri rispetto a quella del quadro n. 371 (cm. 67,7); le misure dell’inventario del 1682 tuttavia risultano, in genere, molto approssimative. La “cornice nera” non è quella attuale, in legno intagliato e dorato.
 I dati più rilevanti dell’inventario riguardano l’iconografia, descritta con molta precisione, ed il precario stato di conservazione (“alquanto scrostata”). In base a ciò è stato ipotizzato che la trasformazione del ritratto in Santa Caterina d’Alessandria fosse avvenuta dopo il 1682, per rimediare alle cattive condizioni del quadro.

 Negli inventari settecenteschi il dipinto non è identificabile in modo sicuro. La “S. Caterina di Raffaele d’Urbino”, sempre ricordata dal 1700 in poi, si riferisce al quadro del Sanzio emigrato in Inghilterra nel 1801 ed attualmente conservato nella National Gallery di Londra, opera tra l’altro di attribuzione indiscussa.

 Nell'Ottocento ritroviamo il dipinto in un inventario databile dopo il 1819, citato come “Pietro Perugino. N. 8/S. Caterina della Rota”. Anche in questo caso, però, l’identificazione va considerata con molta cautela perché le dimensioni inventariali sembrerebbero leggermente maggiori di quelle del dipinto.
 Più sicure, invece, le menzioni degli inventari dal 1833 in poi, dove la tavola è così registrata: “… Prima stanza… n. 24. Un retratto rappresentante Santa Caterina della Rota della scuola di Perugino, lungo palmi 2 e mezzo; alto palmi 3”. Nessuna variazione è riscontrabile né nell'attribuzione (scuola del Perugino) né nella collocazione dell’opera (Prima Camera) fino al 1854, quando viene tentata per la prima volta, in una descrizione anonima del palazzo, l’identificazione della figura femminile: “Prima Stanza, terza parete n. 44 Ritratto di Maddalena Doni Fiorentina in stile del Perugino”. Citazione che resterà identica in tutte le successive descrizioni della galleria.

 Va a Giovanni Morelli il merito di essere stato il primo ad iniziare la moderna vicenda critica del dipinto, vicenda le cui tappe più importanti sono tutte concentrate negli anni dal 1874 (Morelli) al 1927 (Longhi).
 Il Morelli accettò senza riserve l’ormai consolidata identificazione inventariale della dama ritratta con Maddalena Doni. La doppia natura del dipinto – un ritratto con gli attributi della santa – diventò un fatto universalmente riconosciuto negli itinerari, negli inventari ed ora anche nel campo degli studi filologici. Il Morelli procede nella descrizione rivelando via via tutti gli indizi che dovrebbero condurre alla risoluzione del caso: “…abbiamo un Ritratto di donna: la faccia non ci è nuova… questa giovane donna dalle guance pienotte e dallo sguardo un po’ vuoto, non è altro che Maddalena Strozzi, compagna del fiorentino Angelo Doni… un’immagine di Santa, destinata probabilmente a qualche parente della Maddalena Strozzi stessa, che nel quadro aveva preso il nome di Santa Caterina…”

 Le novità proposte dal Morelli riguardano, come è ovvio, l’attribuzione. Non si tratta, afferma il Morelli, di un’opera della scuola del Perugino, perché “…Né la modellatura, né l’accordo dei colori, né molto meno il fondo a paesaggio (la) ricordano”. Non solo: “L’occhio o la pieghettatura non vi sono rotondeggianti come nei discepoli del Perugino o di Pinturicchio; ma invece quadrati come nel Granacci, o nel Ridolfo del Ghirlandaio. I capelli son dipinti con poco gusto. Il paesaggio freddo ricorda più quadri del Granacci che quelli del Ghirlandaio”.
 Altro indiscutibile merito dello studioso fu quello di aver collegato il ritratto ad un disegno di Raffaello conservato al Louvre, probabile modello, per l’esecuzione del dipinto da parte di “un valente artista affine al Granacci, se non Francesco Granacci stesso”.

 Nel 1893 Adolfo Venturi riprende il collegamento fra il disegno di Raffaello del Louvre ed il ritratto Borghese già suggerito dal Morelli. Ascrive però il dipinto più genericamente a “Scuola fiorentina”, proponendo con cautela “… potrebbe essere forse un’opera giovanile di Andrea del Sarto, poiché nelle mani, ove il pittore non poté copiare il disegno di Raffaello, si veggono tinte simili a quelle di Andrea…” Poco prima lo studioso aveva anche osservato “… le mani sono inferiori al resto della figura”.

 Si cominciano già a delineare gli elementi che condurranno da una parte all'attribuzione dell’opera a Raffaello (il rapporto con la Maddalena Doni di Pitti, il disegno del Louvre), dall'altra all'individuazione di una parte originale e di una ridipinta.

 La seconda importante tappa della storia critica dell’opera è segnata dagli interventi di Giulio Cantalamessa, direttore della Galleria Borghese dal 1906 al 1924. Nelle note manoscritte, redatte nel 1911-1912, il Cantalamessa riporta tutte le precedenti attribuzioni. Non ne fa di personali, ma osserva con molta acutezza: “… la disposizione stessa della figura e lo stile indicano nell'artista il proposito di seguire il Raffaello”. Ma soprattutto: “… senza essere straordinaria, l’opera è bella e fine, specialmente nella modellatura del collo e delle clavicole… Brutta la mano destra e scorretta e di tinta pesante, ma la colpa è di un profano ritoccatore…”
 Nel 1916 il Cantalamessa mette a punto le sue conclusioni, che modificano in modo sostanziale la tradizione storiografica ottocentesca sul dipinto ed aprono la strada alla “rivelazione” del Longhi del 1927. Il Cantalamessa, infatti, pur concordando nel collegamento fra il disegno di Raffaello del Louvre ed il ritratto n. 371 già individuato da Morelli e Venturi, ne contesta l’identità del personaggio ritratto con Maddalena Doni. Non solo, attraverso un’osservazione ancor più meticolosa dell’opera, arriva ad individuare molto chiaramente la presenza di due artisti distinti: “… Perché il manto tradizionale… ribelle ad accompagnarsi bene con quel corsetto… e le mani e la ruota dentata accusano un pennello molto meno abile di quello che aveva dipinto il resto, ed un sentimento più rozzo…” Le premesse sono già ben definite, anche se l’attribuzione rimane quella, estremamente prudente, a “Scuola fiorentina”.

 Si arriva così al 1927, quando Roberto Longhi per la prima volta individuò la qualità e la mano di Raffaello nel ritratto Borghese. Innanzitutto riassume i precedenti del “caso”, dal Morelli al Cantalamessa, di cui lo studioso riconosce pienamente l’acume critico. Si passa poi all'osservazione del panneggio del manto “… un clivo così immacolato come quello delle spalle nude della gentildonna non era certamente stato destinato per immantellarsi alla peggio in questo manto di zinco verniciato”. Poi, attraverso confronti di particolari, si tenta l’attribuzione delle ridipinture “… chi a furia di copiare gli schemi ve ne aggiunge instancabilmente de’ nuovi è, a mio parere, uno solo in quei giorni: il Sogliani”.
 Distinta così la parte aggiunta da quella originale, l’attenzione si sposta verso quest’ultima. Longhi traccia addirittura un disegno su come il ritratto doveva essere in origine. E finalmente svela il mistero che sembrava nascosto dalle aggiunte posteriori del manto, dalla ruota, delle mani: “… la forma originaria della giovane donna della Galleria Borghese si leva per grado di eccellenza proprio come fanno la Doni e la Ignota degli Uffizi; ed appare terza accanto ad esse: come terza libera interpretazione offertaci da Raffaello del famosissimo esemplare di Leonardo… dipinto, crediamo, verso la metà del primo decennio del Cinquecento”.

 Fu proprio l’intervento di Longhi ad aprire la strada alla proposta di restauro della tavola,e nel 1934 il Ministero dell’Educazione Nazionale nominò una commissione apposita. La storia del restauro è minutamente descritta nel “Bolletino d’Arte” del 1936: dalle radiografie eseguite nel 1933, che rivelarono “… un cagnolino sulle ginocchia della donna…” al primo saggio di pulitura in una piccola zona del manto a sinistra della scollatura, che fece scoprire parte del paesaggio dello sfondo, fino all'affidamento del restauro nel 1934. Attorno al “ripristino” della tavola si fissò immediatamente l’attenzione degli studiosi italiani e stranieri. Il problema era soprattutto come e in che misura procedere alla rimozione delle parti ridipinte. Alcuni studiosi si dichiaravano favorevoli alla rimozione della ruota e della palma del martirio, ma contrari a quella del mantello, operazione che consideravano troppo rischiosa.

 Il restauro venne affidato ad Augusto Cecconi Principi, che nel 1936 eseguì la distruzione del supporto ligneo originale, il fissaggio del colore, il trasporto su tela, l’applicazione su una nuova tavola di compensato ed infine la rimozione a bisturi delle parti ridipinte, manto compreso.
 La stampa si scatenò immediatamente sull’inedito raffaellesco: la Santa Caterina d’Alessandria era diventata un Ritratto di giovane donna con unicorno. Il risultato del restauro dava così completamente ragione all'occhio di Longhi e coincideva quasi esattamente con il suo disegno ricostruttivo, se si esclude l’imprevedibile particolare del liocorno-cane. Si formarono subito il fronte pro-Raffaello (Longhi) e quello che manteneva l’ormai consolidata attribuzione morelliana al giro Granacci-Ridolfo del Ghirlandaio.

Prima del restauro del 1935


 L’ultimo intervento di restauro sulla Dama col liocorno risale al 1959-1960, a cura dell’Istituto Centrale del Restauro, allora diretto da Cesare Brandi. Il trasporto su tela aveva infatti danneggiato l’opera, la cui superficie pittorica si presentava molto rovinata, soprattutto nella zona del cielo e delle giunture fra le maniche e la scollatura, dove prima c’era il manto. La nuova serie di radiografie eseguite in quell'occasione, inoltre, confermò la presenza di un cane sotto il liocorno e rivelò nello strato sottostante un volto femminile più maturo rispetto a quello attualmente leggibile. Questa volta, però, la decisione fu di non procedere alla pulitura in profondità né sul liocorno né sul viso della dama. L’unico recupero fu quello del nastro sulla manica sinistra dell’abito.

 Quanto al significato dell’opera nel percorso di Raffaello è evidente il richiamo alla Monna Lisa di Leonardo (per la posa e le colonne del loggiato dove è seduta), richiamo già indicato dal Longhi, che collega il ritratto Borghese anche ad un altro esemplare leonardesco, la Dama con l’ermellino del Museo di Cracovia. Il legame con Leonardo è ancor più stretto nel disegno del Louvre, ormai accettato in maniera unanime come preparatorio per il dipinto Borghese: infatti, sovrapponendo l'immagine del disegno a quella del dipinto attuale è sorprendente osservare, fatti i debiti rapporti proporzionali, quanto coincidano i lineamenti del volto della donna con quelli disegnati; come il profilo delle spalle si mantenga pressoché uguale e le dimensioni e la forma del corpetto trovino anch'essi un preciso riscontro nella pittura.  Nel dipinto il parapetto è collocato più in alto rispetto  quello della Monna Lisa, in modo da dividere la superficie pittorica in due rettangoli uguali; inoltre l’importanza del paesaggio è stata ridotta e inquadrata dalla preponderanza dell’elemento architettonico. È stata ipotizzata in modo interessante la probabile esistenza a Firenze, nel primo quinquennio del Cinquecento, di un prototipo di ritratto a mezzo busto, forse nordico, comune a Leonardo, Raffaello, Ridolfo del Ghirlandaio. 


 L’iconografia del ritratto è un altro enigma non risolto: il personaggio è ancora senza nome. Il liocorno che la donna porta in grembo, simbolo di castità, è legato alla tipologia del ritratto nuziale. Del liocorno ci parla la letteratura cortese e cavalleresca: animale fantastico descritto nei Bestiari medievali come “… la bestia più crudele e difficile da catturare, nessuna armatura può resistere al corno che ha sul capo… esclusa solamente una giovane vergine… perché quando scopre una ragazza dal suo profumo, si inginocchia davanti a lei con dolce umiltà… e cade addormentato fra le sue braccia…”

 Il riconoscimento inequivocabile di Maddalena Doni, nel ritratto che forma il dittico, assieme a quello dello sposo Agnolo, conservato a Palazzo Pitti, fece tramontare definitivamente l’ipotesi morelliana di identificazione del quadro Borghese. Vista la singolare bellezza del dipinto della Dama e l’interpretazione come ritratto nuziale su cui tutti gli studiosi concordano, è stata ipotizzata per il dipinto una committenza storicamente importante legata a una precisa occasione.
 Le fisionomie di Maddalena Doni e della dama sconosciuta sono state confrontate, rilevando più di una somiglianza, al di là di una diversità che consiste soprattutto in elementi di immediata lettura, come il colore di occhi e capelli e la concretezza dei tratti del volto, che nel ritratto Pitti descrivono con grande realismo un’esponente della ricca borghesia fiorentina di inizio Cinquecento, contrapposta all'evanescenza sublimata della Dama con liocorno
Raffaello, Ritratto di Maddalena Doni, 1506, Firenze, Galleria Palatina


 È impossibile negare la vicinanza della forma della bocca, del mento, della parte inferiore delle guance che hanno lo stesso innesto sul collo; oltre che del naso, il quale appare più delicato nella Dama con liocorno solo per il trasfigurante chiarore e l’idealizzazione formale che pervadono la figura, ma che è assolutamente identico nel dorso largo, nell'impostazione sulla fronte che allontana gli occhi ugualmente tondi e dalla fissità un po’ “vuota”, come notava Morelli. Anche la forma della fronte coincide perfettamente nei due ritratti.

 Che la somiglianza così marcata di dati fisiognomici non derivi da astratte stilizzazioni ideali è provato dal fatto che, prendendo in esame altri ritratti di donna realizzati dall'artista, cronologicamente accostabili a questi, come la Gravida o la Muta, si osserva che i caratteri fisici sono completamente differenti. Se non fosse che la Dama con liocorno ci appare così angelicamente bionda, sembrerebbe di ritrovarla, qualche anno dopo, più matura e opulenta nel ritratto palatino.

 Esiste un altro elemento che unisce i due ritratti, ed è l’analogia davvero sorprendente dell’ornamento, il pendente che indossano le due dame e che non ha altro confronto, per ostentazione e dimensioni, nella ritrattistica di Raffaello. Nel ritratto della Galleria Borghese esso costituisce anzi l’elemento più concreto e terrestre di questa figura angelicata che in un paesaggio evanescente sorregge un animale favoloso.

 Il doppio ritratto dei coniugi Doni a Palazzo Pitti è concordemente considerato un ritratto di nozze, vale a dire celebrativo degli sposi; ma altrettanto concordemente l’esecuzione, per precisi dati stilistici, viene spostata a un’epoca leggermente successiva alla data del matrimonio di Agnolo e Maddalena, avvenuto il 31 gennaio 1504. La datazione è genericamente collocata fra il 1505 e il 1506, o fra il 1506 e il 1507, anche se è stato addirittura proposto il 1508. In effetti la Maddalena Doni nel ritratto fiorentino appare ben più matura dei quindici anni che avrebbe avuto alla data del matrimonio, essendo nata nel 1489. Età che si adatta invece perfettamente alla giovinetta effigiata con il liocorno.  

 Secondo la consuetudine fiorentina dell’epoca, le opere d’arte e, a maggior ragione i ritratti delle spose, venivano commissionati soprattutto in occasione del matrimonio, e una famiglia importate come era divenuta quella di Agnolo Doni non aveva motivo di sottrarsi alla tradizione. Tanto più che Agnolo era particolarmente attivo nella committenza artistica, aveva fatto eseguire una preziosissima decorazione della propria camera nuziale a Morto da Feltre, divenuta un modello per Firenze, oltre ad avere commissionato a Michelangelo il famoso Tondo. Quello che si potrebbe ipotizzare è che il ritratto di Maddalena Strozzi fatto eseguire in occasione del matrimonio del 1504 sia quello conservato alla Galleria Borghese, e che solo in un secondo momento, probabilmente in occasione della nascita a lungo attesa della primogenita, avvenuta nel settembre del 1507, o addirittura di quella del figlio Francesco, avvenuta nel novembre del 1508, sia stato fatto eseguire il dittico conservato a Pitti. Le forme della Maddalena Doni si addicono infatti a quelle di una giovane sui vent'anni, appesantita ma anche inorgoglita dalla maternità.

 A favore dell’identificazione della Dama con liocorno con la figura storica di Maddalena Strozzi giocherebbe un’ulteriore coincidenza: la sua famiglia, discendente da Marcello Strozzi, del ramo collaterale della celebre dinastia fiorentina, risiedeva nel Gonfalone dell’Unicorno del quartiere di Santa Maria Novella. La scelta dell’unicorno come simbolo di verginità era perfettamente legittimo come attributo di una promessa sposa, ma non così consueto, agli inizi del Cinquecento, come lo era stato in epoca tardo-gotica in un ambito di cultura cortese. Tant'è vero che l’attributo è divenuto eponimo del quadro, in modo analogo a quanto è accaduto all'altrettanto stravagante ermellino della Cecilia Gallerani di Leonardo. Come attributo della sposa era più consueto scegliere il cane, simbolo di fedeltà; e in effetti Raffaello aveva dipinto proprio un cane, cui fu sovrapposta in un secondo momento la figura del liocorno, come testimoniano le radiografie. Il motivo di tale mutamento in corso d’opera non è mai stato spiegato e si potrebbe ipotizzare che fosse stato frutto di una notazione emersa in un secondo momento per meglio connotare la precisa appartenenza della sposa alla famiglia di quella contrada, conferendole così nome e cognome. 


 La fanciulla ha inoltre i capelli sciolti sulle spalle come si addiceva alla sua condizione di giovinetta, mentre la donna del ritratto Doni ha i capelli raccolti in un “coazzone” come richiedeva il suo stato di maritata: quindi il dipinto fu concepito per una donna già moglie e non per una fanciulla promessa.

 Fin dal Medioevo, i gioielli con cui si adornavano gli uomini e le donne, oltre che per la loro bellezza, dovevano essere scelti in virtù dei poteri delle pietre stesse, e numerosi trattati erano dedicati proprio a questo argomento. Non a caso, spesso le gemme diventano quasi “emblemi” dei personaggi che le portano; le perle sono infatti elette a simbolo della Vergine e delle spose, così come lo smeraldo, il corallo che caccia i demoni e fuga le tempeste, il rubino che allude alla fiamma della carità, l’opale che aumenta la vista, il diamante che dà forza e coraggio, ecc. In questi testi, oltre alle spiegazioni dei poteri delle pietre, spesso erano fornite indicazioni anche sul loro colore, poiché un’importanza fondamentale era riservata alle tonalità della gemma, che spesso, per certe sfumature di colore, mutavano la loro qualità e potenza. Alle pietre preziose viene dunque riconosciuto, secondo le antiche tradizioni, un potere taumaturgico ed amuletico, costituendo un prezioso patrimonio di superstizioni alla portata sia del popolo che delle persone più colte. Vicino ai talismani è infatti da considerarsi la perla, ornamento prezioso, indossata a Firenze sia da uomini che da donne; essa è, infatti, tra gli oggetti preziosi nominati con più frequenza nei lasciti testamentari. Spesso la perla orna da sola abiti e capelli delle donne fiorentine, già simbolo di purezza, attributo di Venere stessa, e poi della Vergine. La connessione perla-purezza deriva dall'accostamento biblico del Cantico dei Cantici, dove la sposa è comparata alla perla; già sant'Agostino affermava che la perla è simbolo della castità dell’uomo-Dio e della bellezza, senza rivali, dell’anima. Singolare è inoltre la testimonianza sull'uso terapeutico delle perle, usate nei casi disperati sciolte nell'aceto: è per questo che a Lorenzo il Magnifico, nel 1492, in punto di morte, viene somministrata dal medico una pozione di perle tritate, così come consigliavano i vari lapidari. Per quanto riguarda lo smeraldo e il rubino, sappiamo dai documenti quattrocenteschi pervenutici che erano le pietre che con maggior frequenza venivano regalate alle spose in occasione delle nozze. Questo dono, come risulta dalle notizie riferite nei lapidari, doveva apparire di buon auspico per la felicità e la buona riuscita del matrimonio: allo smeraldo, infatti, oltre a particolari poteri taumaturgici ed alla proprietà di conservare la bellezza del volto, veniva attribuita la virtù di rendere caste le persone che se ne adornavano: secondo la leggenda, la pietra si sarebbe spezzata quando una vergine fosse stata violata.

 In quest’ottica è da considerare il particolare del pendente che, pur corrispondendo nella scelta delle pietra alla correttezza iconografica della connotazione della sposa. Le pietre presenti rappresentano proprio quei riferimenti simbolici che alludono alle virtù coniugali e al candore virginale della sposa: il rubino che conferisce forza, lo smeraldo dai poteri taumaturgici e connessi alla castità, lo zaffiro simbolo di purezza, la perla scaramazza, simbolo dell'amore spirituale e della femminilità creatrice già dall'età antica, e per questo donata alle spose. Il gioiello ha dunque una sua forte personalità e concretezza visiva, è un oggetto importante, che si configura, più che come attributo simbolico, come indicazione di un’appartenenza concreta, un’identità precisa dell’effigiata. Quale si avrebbe, per esempio, se fossero entrambi doni di Agnolo, di cui erano note la passione per i gioielli e la collezione di gemme. Le due perle scaramazze a forma di pera erano poi, anche all’epoca, rarissime e di enorme valore, e non potevano costituire dei generici attributi. Se si considera che nessuno dei ritratti femminili di Raffaello ha un gioiello definibile, così come lo sono questi pendenti, di “esagerate proporzioni”; che, pur nella diversità della forma dei castoni essi si assomigliano “concettualmente”, attengono cioè a una stessa categoria, per il gusto estremamente ricercato ma anche esibito, nonostante le regole imposte a Firenze dalle leggi suntuarie; che sul castone del pendente della Maddalena Doni, come legatura in oro, compare il liocorno; tutto ciò fa concludere che non si tratta che di indizi, che nessuno degli elementi qui citati può in alcun modo costituire di per sé una prova che si tratti in entrambi i casi di Maddalena Strozzi, ma considerandoli tutti insieme possono costituire quanto meno una possibilità. Seguendo le implicazioni di tale possibilità ipotetica, la Dama con liocorno della Galleria Borghese dovrebbe datarsi al 1504, al massimo agli inizi del 1505 considerando che esiste sempre un lasso di tempo non facilmente quantificabile tra la commissione di un dipinto e la sua consegna, la quale verrebbe dunque a cadere nel periodo in cui Raffaello è soprattutto documentabile alla corte di Urbino.

 La Dama con liocorno è dipinta in maniera estremamente luminosa. La materia sottile e trasparente di cui è costituita contrasta fortemente con quella dei ritratti del 1506-1507, cui si vorrebbe accostare, dove invece il colore dai toni cromatici forti e contrapposti è ben iscritto in ampie superfici e non è dissolto dalla luminosità.
 Le uniche opere che le si possono accostare sono i piccoli quadri che Raffaello eseguì per la corte di Urbino, il Sogno del cavaliere e ancor più San Giorgio e il drago del Louvre, dove la testa del cavallo è dipinta esattamente come l’unicorno ed è costituita della stessa sostanza materica, della stessa tavolozza pallida, da un’analoga preparazione della tavola molto liscia e accurata, dalla stessa sottile superficie pittorica. L’identità di scelta coloristica e di stesura pittorica si riscontra anche nel confronto tra i paesaggi su cui si impostano il drago che lotta con san Giorgio e la dama con l’unicorno. Gli elementi che accomunano questi tre dipinti erano ben intonati al clima fatto di raffinatezze cortesi, di preziosità pittorica, di ricercatezza nella scelta dei soggetti, che dominava la corte urbinate a partire soprattutto dal 1503 e negli anni in cui Raffaello la frequentò più a lungo. Non a caso nascono questi soggetti, unici nella vicenda pittorica di Raffaello: il liocorno, il drago e il san Giorgio, l’allegoria profana, l’unica da lui dipinta, del cavaliere dormiente. Tutte queste circostanze rinviano alle figure ideali e favolose, ai riti e ai costumi di cui ci parla la letteratura cortese cavalleresca, con i suoi animali favolosi, con i bestiari medievali, con la miniatura tardo-gotica.

 La Dama e le piccole tavolette eseguite per i Montefeltro si avvertono come una parentesi di sofisticata stilizzazione nell'opera di Raffaello, mai più ripetute, ben diverse dai ritratti borghesi fiorentini. D’altra parte un ambiente così intriso di umori letterari avrebbe potuto indurre a celebrare la ritratta con le forme angelicate e immersa nell'atmosfera favolosa della Dama con liocorno, rendendola antitetica rispetto al realismo ritrattistico della Maddalena Doni. Questo non rappresenterebbe l’unico caso, nell'opera di Raffaello, di trasformazione idealizzata dell’effigiato. Già il ritratto di Giovane con la mela degli Uffizi, identificato con Francesco Maria della Rovere erede del duca di Urbino, eseguito anch'esso nella piena atmosfera della corte urbinate intorno al 1504, mostra sembianze del tutto diverse da quelle dello stesso Francesco Maria della Rovere che compare ritratto due volte nella stanza della Segnatura, con lunghi capelli biondi e fattezze angelicate.

 Il confronto tra i disegni preparatori per il San Giorgio e per la Dama con liocorno, entrambi eseguiti a penna, confermerebbero la vicinanza stilistica e cronologica fra le due opere. I disegni, come i dipinti, documentano l’elaborazione di elementi tutti desunti da Leonardo. Il disegno con il ritratto di giovane donna del Louvre, in stretta relazione con la Dama con liocorno, è considerato la prova più evidente dell’interesse di Raffaello per la ritrattistica di Leonardo. La realizzazione pittorica in genere riconosciuta nel ritratto della Galleria Borghese si differenzia nel disegno proprio per gli elementi più caratterizzanti l’individualità del personaggio, quali i tratti del volto, l’acconciatura che nel disegno riproduce più esattamente quella della Gioconda, così come la posa delle mani, che nel dipinto si devono scomporre per sorreggere l’attributo, il liocorno.

 In Raffaello l’individualità dei tratti caratteristici trasformano lo studio di un modello, quale è il disegno, nel ritratto di una persona concreta, come era richiesto nella Firenze mercantile e borghese dei primi anni del Cinquecento. La traduzione in pittura avviene però sotto l’influenza di una cultura completamente diversa, quella squisitamente rarefatta della corte di Urbino.

 L'ipotesi più certa, tenendo conto della simbologia inserita nel quadro, è che ci si trovi di fronte ad un ritratto, del periodo fiorentino, commissionato in occasione di un matrimonio e lasciato incompleto da Raffaello a Firenze, forse per interruzione del contratto matrimoniale oppure per l'improvvisa morte della dama effigiata o del futuro consorte o, più semplicemente, per la partenza definitiva del Sanzio alla volta di Roma.

 Probabilmente, durante il XVII secolo, la dama, con le sue spalle scoperte, i suoi gioielli e la misteriosa figura del liocorno sul grembo, dovette affrontare il giudizio della nuova morale religiosa che si diffondeva in Europa con la Controriforma. È in questo momento che il dipinto subisce la sua metamorfosi: da donna che si circonda di gioie terrene a Santa Caterina martire. Le spalle e le maniche vengono avvolte da un ampio manto. Le mani non cingono più il liocorno ma sono impegnate a sorreggere gli attributi tipici di questa santa: la ruota e la penna d'oca.

 Tra gli altri nomi proposti per l'identificazione della dama misteriosa, oltre a Maddalena Strozzi, troviamo quelli delle nobildonne andate spose negli anni fra 1505 e 1507 ad alcuni dei committenti fiorentini di Raffaello: Sandra di Matteo di Giovanni Canigiani (sposa di Lorenzo di Bartolomeo Nasi), Ginevra Canigiani (sposa di Liandro di Bartolomeo Nasi), Lucrezia di Girolamo Frescobaldi (sposa di Domenico Canigiani), Costanza di Priore Pandolfini (sposa di Pietro di Rinieri Dei), ma non coscendo la fisionomia di queste donne non è stato possibile un confronto.

 Osservando l’immagine della fanciulla possiamo notare che le dita delle mani della Dama con liocorno non sono ornate da anelli preziosi, rappresentati invece in tutti gli altri ritratti di donne sposate di alto lignaggio dipinte da Raffaello, a cominciare dalla Maddalena Doni, dalla Gravida per finire con la Muta . E’ pur vero che nel quadro Borghese sono visibili, soltanto, il pollice e l'indice della mano destra, ma, in genere, gli anelli erano inseriti anche attorno agli indici, anzi, l'anello nell'indice era di gran moda nel primo '500, come appare nella mano sinistra della Maddalena Doni e in entrambe le mani della Muta. Anche in questo caso il riferimento simbolico, come da tradizione, teneva conto della corrispondenza fra i significati astrologici e le singole dita delle mani (il pollice era il dito di Venere, l'indice quello di Giove, il medio di Saturno, l'anulare il dito solare per eccellenza, il mignolo il dito di Mercurio).
 Hanno invece dita prive di gioielli tutte le diverse figure femminili raffaellesche derivate dalla mitologia classica e dalla religione cristiana. Infine, in nessuno dei suoi ritratti femminili il Sanzio ha inserito altre figure di animali, così vistosamente esplicite come nella Dama Borghese.



Per saperne di più:
-          - Raffaello nelle raccolte Borghese, catalogo della mostra tenuta a Roma, Galleria Borghese, gennaio-marzo 1984.
-        -    Raffaello, catalogo comlpleto dei dipinti, Firenze, 1989.
-    - La virtù delle gemme. Il loro significato simbolico e astrologico nella cultura umanistica e nelle credenze popolari del Quattrocento. Il recupero delle gemme antiche, in L’oreficeria nella Firenze del Quattrocento, catalogo della mostra tenuta a Firenze, 1977.
-    - Coliva Anna (a cura di), Raffaello da Firenze a Roma, catalogo della mostra tenuta a Roma, Galleria Borghese, 2006, Milano, 2006.
-         -  De Vecchi Pierluigi, Raffaello: la mimesi, l’armonia e l’invenzione, Firenze, 1995.

-          - Strinati Claudio, Raffaello in Art Dossier, Firenze, 1995. 

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